La stampa che giustifica la violenza sulle donne è irresponsabile di Monica Lanfranco e Nadia Somma

 Il 19 luglio scorso Loretta Gisotti, 54 anni, è stata assassinata dal marito. L’uomo l’ha presa a martellate e l’ha finita strangolandola. Sul quotidiano La Provincia di Varese, a firma di Simona Carnaghi, sono usciti due articoli così intitolati: “Lei era sempre critica con Roberto” e “E’ riuscita a distruggermi la vita.

Ha vinto lei, vi chiedo perdono”. Gli articoli giustificano la violenza compiuta dall’uomo, colpevolizzano la vittima e, in un rovesciamento dei ruoli, empatizzano con l’assassino, evidenziandone la sofferenza. Nel primo articolo si parla di una coppia normale che stava per andare in vacanza, nel secondo invece di una coppia che era già separata. Secondo la giornalista una critica non gradita nei confronti di un uomo sarebbe “la goccia che fa traboccare il vaso” e può quindi portare al massacro di una donna come fosse un evento del tutto comprensibile se questa osa entrare in conflitto col marito.

Una narrazione che normalizza il femminicidio. La descrizione dei fatti si fonda sulle dichiarazioni dei vicini di casa o su quelle dello stesso assassino senza alcun approfondimento. Viene evidenziato il dolore (comprensibile) della madre del femminicida ma si tace su quello dei familiari, o amici, della vittima, come se non avessero anch’essi un lutto da affrontare. Nell’articolo ricorre, poi, il fantomatico “raptus” anche se l’Associazione nazionale degli psichiatri italiani ha detto da tempo che non esiste. L’articolo 17 della Convenzione di Istanbul che responsabilizza i media per cambiare la cultura della violenza è palesemente disatteso, nonostante da anni si parli di cambiare il linguaggio della stampa nei casi di violenza contro le donne, nonostante l’impegno della rete di giornaliste Giulia, che nel 2014 realizzò il video Io me ne curo http://www.globalist.it/media/articolo/45919/buona-informazione-io-me-ne-curo-e-tu.html per sensibilizzare i mass media ad adoperare un linguaggio che non rimuova la gravità della violenza contro le donne.

Eppure continuiamo ad imbatterci in articoli come questi. Quello che scrivono i giornali incide così come quello che racconta la tv. Se in un articolo di giornale o in un servizio tv che racconta la violenza subita da una donna, o un femminicidio, si sottolinea come era vestita, o se era antipatica, criticona, poco carina con il marito, le si fa violenza un'altra volta, o la si uccide di nuovo. Se si insinua che, in fondo, se l'è cercata le si fa violenza, o la si uccide, di nuovo. Se si parla di delitto passionale, di raptus, la si violenta o uccide di nuovo. Le parole non sono neutre, e chi fa giornalismo ha una enorme responsabilità nella lotta, o nella conferma, degli stereotipi che alimentano la violenza. L'informazione consapevole comincia da chi la fa, quindi dalle giornaliste e dai giornalisti, che sono la prima linea della buona o della cattiva informazione, che a sua volta è parte fondante della formazione delle coscienze individuali e collettive. La serie di articoli pubblicati dal quotidiano la Provincia di Varese è un esempio vergognoso e ripugnante di come non dovrebbe mai essere trattata la cronaca di un femminicidio.